Sui miei Uomini Rossi esiste una discreta saggistica, ma qui voglio rievocare l'atmosfera nella quale eseguii quelle pitture, atmosfera che, fuor di metafora, la memoria mi restituisce adesso come fervore febbrile continuo: era la scoperta di me stesso, della mia identità creativa. Gli Uomini Rossi infatti videro la luce durante un rigido inverno milanese, in un gelido abbaino di piazzale Susa, nel quale io, dando fuoco a vecchi giornali appallottolati, cercavo di scaldarmi un po'. E come ero finito lì, sotto i tetti di piazzale Susa? Per forza il racconto deve prendere le mosse dall'Avanguardia artistica, una libera accademia fondata in corso Monforte, primo portone a destra, pian terreno, dal gallerista Barbaroux, ch'era in effetti il conte Vittorio Emanuele Barbaroux. «Vedrai, è un'iniziativa indovinata», gli aveva detto il pittore Carpanetti consigliandogli di aprire un locale dove i giovani artisti avrebbero potuto mettersi in vista. E così, sull'esempio di analoghe istituzioni attive a Parigi, era sorta l'Avanguardia artistica che, infatti, si era subito affollata di giovani pittori e di giovani scultori. Cedendo, ognuno di noi, un quadro o una scultura ogni mese a Barbaroux, si aveva diritto a utilizzare gli sgabelli, i cavalletti e le modelle della libera accademia, che davvero attrasse quasi tutti i veri talenti di Milano. Era tutta gente che non aveva i soldi per mantenersi ai corsi di Brera e che andava all'Avanguardia artistica la sera, dopo una giornata di lavoro. Là conobbi alcuni ottimi amici: Renato Birolli, che era figlio di un ferroviere di Verona e faceva il correttore di bozze all'Ambrosiano, Fiorenzo Tomea, che tirava avanti aiutando il fratello ortolano, e Giacomo Manzù, di Bergamo, che narrava di un suo viaggio a Parigi e, in quell'inverno, portava un cappello verde alla Buster Keaton.
Ognuno di questi amici miei era assolutamente diverso dall'altro, nel carattere e nella sensibilità. Tomea era un bonaccione, simpatico, un ragazzo di cuore, talora attraversato da quella vena di malinconia rivelata dai suoi quadri; Birolli era indubbiamente il più colto della compagnia, quello col quale si poteva discutere dei temi più impervi, delle letture più inconsuete, però talvolta si atteggiava un po' a maestro e invece era ancora legato agli esiti della pittura veronese del momento; quanto a Manzù, si capì subito che era un artista di grande rilievo: di poche parole, parlava per battute, forse ci raccontava ingigantiti i particolari di un suo viaggio a Parigi, ma da come vedeva le cose, da come disegnava, s'intuiva che aveva una personalità creativa tutta sua.
Per un po' l'Avanguardia artistica andò avanti bene, ma poi Barbaroux fece i conti e, sempre più, si radicò in lui l'idea di chiuderla. Intanto io e Manzù, avendo capito per tempo che la libera accademia aveva i giorni contati, avevamo preso in affitto il sottotetto di piazzale Susa al quale ho già accennato. E quando ebbi la notizia certa che Barbaroux avrebbe chiuso i battenti di corso Monforte, che cosa feci? Una mattina che non c'era nessuno entrai nei locali dell'Avanguardia artistica e, preso il cavalletto al quale lavoravo abitualmente, me lo portai via con l'aggiunta dello sgabello. Così, con questo carico in spalla, percorsi quella mattina tutto corso Monforte, tutto corso Indipendenza, tutto corso Plebisciti e giunsi in piazzale Susa, dove allora c'era il passaggio a livello della ferrovia: lì mi attendevano le scale per arrivare fin oltre il sesto piano. Entrai nell'abbaino, sistemai il cavalletto, preparai una tela e quel giorno stesso cominciai a dipingere il primo quadro degli Uomini Rossi. Il regista Jean Louis Tosello ha ricostruito quei momenti in un suo film finanziato dal Ministero della cultura francese per le scuole a metà degli anni '80.
Intorno ai quadri Uomini Rossi, come dicevo, c'è una certa letteratura critica. Ma cosa penso io di quel mio ciclo pittorico? Sottovoce, senza la pretesa di ripetere il crociano contributo «alla critica di me stesso», io dico che gli Uomini Rossi sono la giovinezza, sono la rappresentazione dell'uomo che nasce nudo dinanzi al creato e poi affronta la società, in cui è costretto, con la fede, con la generosità della giovinezza, con la purezza dell'alba: l'uomo investito dalla luce del sole, la quale traspare nel corpo ed illumina il sangue, il sangue che è vita e poi sarà morte. Perciò non vi sono ombre nel quadro, perciò tutto è colore. Forse adesso, dopo sessant'anni e passa, sento la necessità di distaccare i corpi, le forme, con i contrasti (chissà) creati dal tempo. Ma in quell'abbaino io ero un giovane che aveva avuto sempre sotto lo sguardo, sulle pareti domestiche, un quadro raffigurante una scena della Rivoluzione Francese, scena dominata da un drappo rosso. E per me allora quella bandiera sventolante faceva lievitare ogni mia conoscenza, tutto ciò che leggevo o ascoltavo. Chi ero? Come tanti altri ero un ragazzo entusiasta, passionale, chiuso, che voleva dare una forma giusta al mondo, ai sentimenti. Gli Uomini Rossi sono puri; gli sportivi, i santi, i pastori, i musici sono gli ideali corpi di una luce serena, la luce di un mondo che ancora non si è appannato, che ancora non è stato appannato dalla brutalità della vita.
Avvertivo - e certamente non ero il solo del mio ambiente - l'esigenza di una morale di vita e m'imponevo una moralità pittorica, della luce e delle forme. E forse è per questo che nella mia pittura d'allora s'incontrano concordanze con il mondo classico, con i primitivi. No, le mie motivazioni formali di quegli anni nulla ebbero a che vedere con il Picasso del Periodo rosa. Per me molto più importante era stato l'impatto con la lezione incomparabile del Beato Angelico, appresa in un viaggio in bicicletta a Firenze; più decisivo era stato l'incontro con Masolino a Castiglione Olona dove andavo sempre in bicicletta. Poi, ad un certo punto, si destò in me il bisogno di chiudere in uno spazio, in una cornice, in una stanza, gli uomini, i giovani, i giocatori di dadi. L'uomo chiuso in un ambiente, ma nudo, perché questa è l'eredità che ci hanno lasciato i greci: il nudo. Pittura «di testa»? Io credo di no. Allora (e dopo) la pittura l'ho intesa come una creazione dell'anima, come un dettato dei sentimenti più intimi e naturali. Certo, accade che lo stimolo venga dal mondo esterno, ma se non si sposa bene con quanto si agita nell'anima, resta sì conoscenza, ma non diviene pittura. (Aligi Sassu, Un grido di colore, Todaro Editore, 1998)

 

 

     

I tre musici, 1930
olio su tela
cm 42x27

 

I calciatori, 1930
olio su tela
cm 40x60,5

 

I cavalieri, 1930
olio su tavola
cm 47x39

 

Ragazzi sulla spiaggia, 1930
tempera su carta
cm 19,5x16

 

Giocatori di dadi, 1931
olio su tela
cm 100x70

 

La stanza rossa, 1931
olio su tavola
cm 29,5x41,5

 

Uomini rossi, 1931
olio su tela
cm 58x74

 

Gli argonauti, 1931
olio su tela
cm 70x65

I dioscuri, 1931
olio su tela
cm 100x80

 

     

 

 

 

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