[…] Dei miei amici di quegli anni, uno dei più stretti fu Bruno Munari. Fu con lui che detti avvio alla mia breve stagione futurista, fiorita di episodi tutti da raccontare. Da dove cominciare? Forse dalla passione per la lettura, che mi condusse tra le pagine più impensate degli autori più svariati. Ho sempre letto, credo di essere nato leggendo. Leggevo di tutto e senza tregua: saggistica e narrativa, autori classici e sconosciuti, riviste francesi e quotidiani italiani, talvolta del giorno prima. Ci scambiavamo libri in prestito, tra noi ragazzi, o andavamo a cercarli usati sulle bancarelle. E una volta, agl'inizi del '27, in una bancarella di Porta Venezia vidi Pittura e scultura futuriste, il libro di Umberto Boccioni uscito nel '14 presso le marinettiane edizìonì di «Poesia». «Quanto costa?», chiesi a Tarantola, il libraio ambulante. Mi concesse uno sconto, potei prenderlo. Tornando a casa lo sfogliai e risfogliai, soffermandomi ogni tanto per meglio gustare le illustrazioni: perché nel libro erano riprodotte una cinquantina di opere di Boccioni, Carrà, Russolo, Balla, Severini e Soffici. Boccioni! Papà, nel '19, quando io avevo sette anni, mi aveva condotto con sé a vedere la prima, grande collettiva dei futuristi al Cova, e s'intende che io, quando acquistai il libro, non avevo più memoria di quella visita. Però mio padre me l'aveva così tante volte raccontata, in quegli otto anni trascorsi da allora, che mi sembrava di aver visto dal vero alcuni dei quadri che illustravano il libro, soprattutto quelli di Boccioni.
Munari, più grande di me di cinque anni, lo conobbi ai giardini pubblici. Avevamo gli stessi interessi e così prendemmo a frequentarci intensamente, a discutere per ore ed ore e a gioire delle medesime scoperte, come sempre succede tra giovani. Lui era un ragazzo quadrato, a sua volta buon lettore, e lavorava da disegnatore meccanico presso suo zio in via Manzoni, il primo portone a sinistra, primo piano. Un giorno venimmo a sapere che Filippo Tommaso Marinetti avrebbe incontrato alcuni artisti nell'Hotel Corso e decidemmo di presentarci a lui per mostrargli i nostri lavori. Io gli avrei portato un fascio di disegni, tra i quali parecchi ispirati dal libro Mafarka il Futurista, il discusso «romanzo africano» del fondatore del Futurismo, mentre Bruno gli avrebbe fatto vedere le sue più recenti opere su carta.
Ma potevo mai presentarmi a Marinetti in calzoni corti? Allora trovai un paio di pantaloni smessi di papà, mia madre me li arrangiò un po' e quella fu la prima volta che uscii di casa vestito non più come un ragazzo. Entrammo e in fondo alla grande hall scorgemmo subito il poeta che s'intratteneva con i suoi amici. C'era Russolo, c'era il biondo alto Escodamè, c'era Azari. Più tardi, quando lui già osservava i nostri fogli, sopraggiunse Paolo Buzzi e, infine, venne colui che sarebbe diventato, di lì a diversi anni, un carissimo compagno mio: Tullio Mazzotti, meglio conosciuto tra i Futuristi come Tullio d'Albissola. «Bravi, bravissimi». Marinetti, che era dotato di un indubbio fascino e si muoveva nell'aura della sua celebrità internazionale, ci tempestò di superlativi, lodandoci oltre ogni attesa e conquistandoci senza riserve, con tutto il cuore, al Futurismo degli ultimi Anni Venti. «Ragazzi, a domani!»
L'indomani sera, in una sala di via del Gesù, c'era una serata di poesia promossa dal circolo culturale «Il Convegno». Io e Munari, puntualissimi, prendemmo posto in una delle prime file. Introdusse la manifestazione l'avvocato Innocenzo Cappa, zio della moglie di Marinetti, oratore roboante e molto noto. Poi vennero le declamazioni. Sennonché a un certo punto, tra un momento e l'altro della serata, Marinetti dal palcoscenico annunciò che «sono in sala due speranze dell'arte italiana»: fu così che Munari ed io finimmo sotto i riflettori in un modo del tutto imprevisto, che squassò la mia timidezza e scosse anche Bruno, giovane dalle idee genialissime, ma tipo piuttosto tranquillo.
Ormai ero diventato un futurista. E con i futuristi, mi pare un mese dopo, esposi due quadri nella galleria Pesaro, incredulo nel vedere il mio nome in catalogo accanto a quello di artisti di grandissimo nome come Balla, che esponeva un suo dipinto intitolato, credo, S'è rotto l'incanto. Il promotore di quella mostra fu Fillìa. La sera della vernice io e Munari eravamo entusiasti e un po' spaesati, assieme a Nino Strada, in mezzo a tutti gli altri, da Mino Rosso a Pippo Oriani. L'anno dopo, nel 1928, Marinetti mi disse di mandare due quadri alla Biennale, che li avrebbe esposti nello spazio riservato al suo Movimento.
La Biennale! Avevo sedici anni, mi domandavo se fosse vero, mi pareva di sognare. Spedii due lavori, Nudo plastico e Uomo che si abbevera alla sorgente, ma non potei andare a Venezia per l'inaugurazione perché non disponevo del denaro che mi sarebbe occorso per il viaggio e per il soggiorno, né i miei erano in condizioni di aiutarmi. Però, alla fine, riuscii a visitare l'esposizione grazie alla generosità di uno zio di Bologna. Giunsi sulla laguna provenendo non già da Milano ma dalla città felsinea, con cento lire in tasca, l'indispensabile. L'ho già detto: mi sembrava tutto un sogno, e quasi non credevo ai miei occhi quando nell'articolo dedicato da Ugo Ojetti alla grande mostra veneziana lessi anche il mio nome. L'illustre critico citava me, che ero soltanto un ragazzo, e il mio Nudo plastico: c'era veramente da montarsi la testa, eppure, per quanto stordito da quel che mi accadeva, rimasi con i piedi ben piantati in terra.
Dove saranno finiti i disegni ispiratimi da Mafarka il Futurista e mostrati a Marinetti quella volta nel salone dell'hotel Corso? Li eseguii servendomi di una matita verde, o forse rosso viola e li vendetti poi per venticinque lire d'argento a un pubblicitario amico di mio padre, Guido Cassi, che aveva casa in viale Piave proprio di fronte alla litografia «La Presse», quella nella quale lavorai per un annetto, imparando a riportare i bozzetti sulle lastre. E dove saranno finiti i quadri che attraverso il movimento futurista inviai in Germania, in Cecoslovacchia e altrove? Del primo incontro con Marinetti mi resta una dedica, che egli volle apporre con la sua stilografica su di una copia di Mafarka il Futurista che avevo portato con me. Di lui, di Marinetti, mi restano ricordi nitidi, anche perché lo incontrai parecchie volte al Savini, dove la sera radunava gli amici intorno ai tavolini e dove spesso andai anch'io assieme al mio compagno Pericle Patocchi. Tra i più assidui erano il musicista Franco Casavola, il pittore Gabriele Mucchi e l'onorevole Lanfranconi, che raccontava barzellette antifasciste alle quali il poeta si divertiva moltissimo. Era un uomo affascinante Marinetti, ma ti metteva a tuo agio, trattava anche i giovanissimi da pari a pari e così, un po' per volta, chi gli stava vicino non si accorgeva più di chiacchierare del più e del meno con uno dei protagonisti della cultura europea. Il che, tanto per fare un paragone, non avveniva con Picasso, che era travolgente nell'approccio, come tutti gli spagnoli, però sentivi che c'era in lui un fondo di diffidenza, avvertivi che era sulla difensiva, pronto allo scatto e all'aggressione. Di Marinetti, invece, coglievi subito la disponibilità, sentivi che era costituzionalmente fatto per dare, non per avere. […] (Aligi Sassu, Un grido di colore, Todaro Editore, 1998)
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