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Posso dire di aver vissuto nei caffè, che divennero infatti un universo di riferimento della mia pittura fin dall'inizio degli Anni Trenta. Naturalmente conoscevo i dipinti di Toulouse-Lautrec, di Monet e di Renoir; così come conoscevo quelli dei maestri parigini degli Anni Dieci. Però da allora molta acqua era passata sotto i ponti della Senna, come del Naviglio. E si trattava, piuttosto che ripetere il naturalismo dei grandi contemporanei francesi, di ricreare in pittura il caffè, di restituire alla tela un sogno incendiato di colori; la vanità di un punto d'incontro, l'attesa, non l'attesa nel Castello, che ha dato Buzzati nel Deserto dei Tartari ma quell'indefinibile attesa del nulla che si profila in crescendo per un universo di gente che entra e esce nel mondo. Per il pittore ne è la realtà variegata dell'anima, della gente che non ha storia, ma di una storia millenaria che si ripresenta ad ognuno di noi, che il pittore legge ogni volta e trascrive in una variegata miscela di colori e di anime che volgono stanti in attesa del nulla. (Aligi Sassu)
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Caffè, 1932
olio su tela, cm 125x95
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Caffè rosso, 1933
olio su tela, cm 100x80
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Caffè azzurro, 1934
olio su tela, cm 64x48
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il grande caffè, 1936
olio su tela, cm 141x201
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Caffè rosa, 1939
olio su tela, cm 90x140 |
La melanconia, 1946
olio su tela, cm 85x125 |
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Ballo allo Shangai, 1956
olio su tela, cm 150x199 |
Bar Brisas, 1974
olio su tela, cm 129,7x161,8
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Chez Dupont, 1987
olio su tela, cm 70x100
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